Riflessioni sulla storia di Eluana Englaro, a un anno dalla morte

<br />MILANO – Eluana Englaro, la ragazza di Lecco, vissuta 17 anni in stato vegetativo, si è spenta in una stanza della clinica La Quiete di Udine il 9 febbraio dell’anno scorso. La sua storia è rimasta impressa nella memoria di tutti, con i suoi tanti punti interrogativi che hanno coinvolto l’opinione pubblica. Sul versante bioetico, una questione non è ancora stata sufficientemente messa in chiaro: Eluana non era attaccata ad un macchinario, ma respirava e viveva autonomamente. La famosa frase, più volte usata, “staccare la spina” era un falso: perché morisse, bisognava agire. Ad Eluana sono state tolte l’alimentazione e l’idratazione e dopo pochi giorni di agonia si è spenta. Inoltre, l’impressione contrabbandata da alcuni mass-media di una ragazza devastata dalla malattia non corrisponde al vero: dall’autopsia è stato invece confermato che il suo corpo non soffriva, che non c’era traccia di piaghe e che non aveva nessuna difficoltà nel nutrimento. La storia di Eluana interpella le coscienze a riguardo della difesa della vita umana, anche quando è debole e indifesa. Il tema è messo in evidenza oggi su Avvenire in un editoriale del direttore Marco Tarquinio. “Amare la vita umana -scrive-, difenderla, sostenerla e – comunque e sempre – accoglierla e rispettarla è la cosa più semplice di questo mondo. E viene na turale. È naturale e umano proteggere chi è piccolo e fragile, aiutare chi è in pericolo, consolare chi soffre. È naturale e umano dar da mangiare e da bere a chi non può provvedere da solo. Innaturale e terribile è invece l’idea di negare, in qualunque modo, la vita di chiunque o anche solo di abbandonarla nella debolezza, nell’estrema dipendenza, nella difficoltà. Amare la vita è semplice -rimarca Tarquinio-. E, infatti, sono le persone semplici che sanno farlo meglio”.