Convegno diocesano 2019: la relazione integrale di Rosanna Virgili

DIOCESI – In occasione del convegno diocesano 2019 sul tema “Per leggere il nostro tempo… In ascolto del Vangelo di Matteo” ha tenuto la relazione Rosanna Virgili, biblista, di cui pubblichiamo di seguito l’intervento integrale.

Cinque parole, cinque decisioni – La roccia, il sale, il prossimo, la cura, la felicità

Buonasera! C’è tanta luce qui dentro… Io vi vedo poco…mi dispiace…ma la luce è la prima creatura di Dio! Anche se questa è una luce che l’uomo è riuscito a fare: del resto l’uomo è il primo collaboratore di Dio. Ringrazio Sua Eccellenza il Vescovo che ha avuto la gentilezza di invitarmi qui: per me appunto è un ritorno. Io sono già stata due volte nella diocesi di Chiavari e ho potuto veramente godere della vostra grande cordialità. Siete davvero molto mediterranei: intanto perché vi piace mangiare bene e perché
siete tanto tanto accoglienti. Quindi è un grande piacere per me
tornare e ringrazio tutti. È un motivo di gioia poter condividere l’apertura di una finestra su un Vangelo che è il primo della raccolta canonica dei Vangeli e che apre tutto il Nuovo Testamento, anche se poi –diciamo così – gli studi storico-critici hanno cambiato un po’ la datazione, la posizione del Vangelo di Matteo, ma questa è una cosa di cui questa sera noi non ci vogliamo occupare.
Allora si diceva che c’è la volontà – ed è la prima volontà – da parte di questa assemblea diocesana di rispondere alle esigenze dell’oggi, di interagire, di interloquire anche con le sfide dell’attualità. Basta il nome: Matteo. Di Mattei ce ne sono tanti in giro che sono stati protagonisti degli ultimi mesi, degli ultimi anni della nostra vita politica in Italia. È quasi una battuta… ma appunto c’è un Matteo che è quello che stasera noi vogliamo assolutamente conoscere, almeno in alcune suggestioni, che ci porta fedelmente la Parola di
Gesù, sicuramente più fedelmente degli altri Mattei che l’hanno veramente utilizzata e non sempre in maniera ortodossa.

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Così ho fatto una scelta volendo dare un titolo e volendo anche aprire appunto delle piste per meditare sul Vangelo di Matteo. Ho scelto il numero cinque: cinque parole, cinque decisioni. Perché? Ma perché è tradizione dividere questo Vangelo in cinque grandi discorsi. Il primo Vangelo si struttura appunto in cinque parti, cinque discorsi di Gesù.
Forse deve essere fatta anche brevemente una nota: il Vangelo di Matteo pur essendo il più lungo dal punto di vista dei capitoli – sono 28 capitoli – non è il più lungo in quanto a materia. Il Vangelo di Luca pur avendone 24 ha una suddivisione più vasta e quindi la materia è più lunga e quantitativamente maggiore. Insomma è un Vangelo molto molto corposo. E se nei primi secoli della Chiesa si pensava che appunto Marco, il secondo Vangelo che invece ha solo sedici capitoli, fosse stato – in francese “ciseaux”- cioè una forbice rispetto a Matteo, quindi avesse tagliato tanta parte del materiale di Matteo, noi sappiamo (ormai quasi da due secoli con l’ esegesi storico-critica) come invece sia stato il contrario. Marco è una fonte dei vangeli sinottici, quindi Marco sarebbe stato comunque – diciamo questa parola- “prodotto” prima, almeno come fonte, e Matteo avrebbe utilizzato Marco e un’altra fonte, la fonte dei loghia, dei detti di Gesù e poi però avrebbe aggiunto tanto suo materiale.
Ecco allora questo per dire che cosa? Che Matteo è stato un grande elaboratore della magisterialità di Gesù. Sì possiamo dire questo: la caratteristica propria di Matteo è che lui ci riferisce lunghissimi e splendidi, stupendi discorsi di Gesù. Non lo fa Luca, non lo fa Marco, ma non lo fa neanche Giovanni che è il narratore dei dialoghi Gesù.
Matteo invece ci mostra il Gesù maestro e questo va proprio ascritto a lui, perché se noi conosciamo tanto insegnamento di Gesù è proprio grazie al primo vangelo. Perché cinque discorsi? È possibile che la ragione sia stata proprio quella di voler dare un fondamento.

ROCCIA
Proprio per questo la prima parola che tratteremo è la parola roccia.
La roccia è una caratteristica del Vangelo di Matteo, è una caratteristica del primo grande discorso che ci presenta, ma è anche una sorta di definizione di ciò che voleva essere questo Vangelo: voleva essere un fondamento.
Allora cinque discorsi, come cinque sono i libri di Mosè: il Pentateuco, l’inizio della nostra Bibbia. La prima raccolta della nostra Bibbia si chiama il Pentateuco e riporta la Torah dei fratelli ebrei: è sempre la parte più importante di Tanak, della Bibbia ebraica.
Quindi la legge di Mosè si divide in cinque rotoli, cinque contenitori, ma preferirei dire cinque pilastri, proprio pilastri del primo testamento, dell’alleanza sinaitica, dell’alleanza con Dio del primo testamento. Cinque pilastri per una nuova alleanza, l’alleanza appunto che vede due diversi contraenti. Se nella prima alleanza c’erano Adonai ed Israele (questi erano i contraenti della prima alleanza), nella nuova alleanza i contraenti sono il Dio Padre di Gesù e quindi Gesù stesso come Figlio di Dio e tutta l’umanità, che poi è la Chiesa, perché la Chiesa è un’apertura universale del popolo che si unisce a Dio. Quindi la proposta di alleanza nel Nuovo Testamento a partire da Matteo è un’alleanza universale, a tutta l’umanità.
Il primo grande discorso lo troviamo nei tre capitoli 5,6 e 7 e comincia con le Beatitudini (di cui parleremo alla fine) e si conclude con una parabola a noi assolutamente nota, la parabola della casa costruita sulla roccia.
“Chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica sarà simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia”.
Leggendo soltanto la prima frase della parabola della casa costruita sulla roccia o sulla sabbia che Gesù narra alla fine del grande discorso della montagna mi è venuto in mente proprio quanto è stato detto nei giorni scorsi nel festival della filosofia. C’è stato un festival della filosofia cui hanno partecipato diversi filosofi. Si è parlato della persona, delle trasformazioni che le persone oggi subiscono, dell’umanesimo e del post-umanesimo. Cacciari ha parlato appunto più dell’umanesimo e dei cambiamenti della struttura della persona. Galimberti a un certo punto ha detto che se c’è un aspetto caratteristico della vita umana, e quindi anche della vita dell’uomo occidentale oggi, è quello della fine dell’etica. L’etica sarebbe la scienza dei comportamenti, delle cose che si fanno, delle azioni, delle opere e l’etica dipende dalla distinzione tra il bene e il male:
ciò che è bene, che si deve fare porta alla vita, porta il futuro e ciò che è male, invece, porta alla morte. Ma oggi non è più così, è molto difficile stabilire dei canoni etici. Tanto è vero che la grande crisi dell’educazione si fonda sulla crisi dell’etica: i genitori non sanno più cosa dire ai loro figli, perché essi stessi non sanno cosa sia bene, cosa sia male… Ai nostri figli chiediamo “cosa ti piace” e sempre di meno “cosa è giusto, cosa non è giusto” perché lo sappiamo sempre di meno. Una volta che è venuta meno l’etica religiosa nel nostro occidente, dall’etica cristiana si è ricorsi all’etica laica. Oggi è molto in crisi anche l’etica laica perché si è giunti ad una deriva: è una deriva creata dai diritti individuali. E’ giusto dare a ciascuno i suoi diritti individuali. Su questo non si è molto ragionato. Ci sono tante pubblicazioni: i francesi hanno riflettuto da più anni rispetto a noi italiani, appunto perché la Francia è un po’ la grande patria dell’etica laica ed è quella che però ha riflettuto già da tempo sulla mancanza di diritti di fraternità.
L’individualismo è stato la fonte ma anche l’effetto, è cresciuto fino al narcisismo, fino a quello che io chiamo selfismo. Per cui oggi amiamo lo specchio di noi! Venendo qui in treno (ho cambiato tre treni) ho potuto osservare come la gente sia continuamente al cellulare: tutti, giovani, anziani (non è vero che sono solo i ragazzi).
Vicino a me c’era una signora, penso settantenne: è stata sempre al cellulare e ogni tanto si faceva un selfie. E’ curioso, ma è anche emblematico di quello che è la nostra realtà, la nostra epoca.
Dunque questo significa che l’etica laica non ci aiuta perché il riferimento è a sé (io voglio che mi si venga riconosciuto quello che idealizza…). Questo porta alla disgregazione del tessuto sociale elementare, perché se ogni cittadino pensa al suo diritto individuale viene meno la società, non c’è niente da fare. Quindi c’è questo grande problema che è l’etica.
In effetti che cos’è il tessuto di una società? Nel mondo biblico la legge è proprio l’espressione dei valori: non uccidere, non rubare, non dire il falso. Non dire il falso: oggi che siamo davanti a un mondo di fake news, un mondo di costruzione della realtà, la costruiamo la realtà. Questo significa uno smottamento dell’etica tradizionale sicuramente, per cui non c’è una roccia, non sentiamo di essere fondati su una roccia, ma sentiamo di camminare nelle sabbie mobili di fatto. Tutto cambia: è difficilissimo, consegnare un’eredità morale ai nostri figli, difficilissimo.
Allora rimane per noi la responsabilità di una ricerca perché Gesù dice che chi ha costruito la casa sulla roccia è sicuro perché cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti, si abbatterono su quella casa ma essa non crollò perché era fondata sulla roccia. Poi Gesù continua dicendo invece che chi fonda la sua casa sulla sabbia – come oggi potremmo sentire noi che stiamo fondando la nostra casa sulla sabbia – non avrà certezze perché quando arriveranno delle piogge… questa casa non resisterà.
Ma la domanda che resta a noi è questa da fare: Qual è la roccia?
Dov’è la roccia? La Parola del Signore, diceva Sua Eccellenza. E’ vero, ma qual è allora la Parola del Signore? E qual è l’attualità della Parola del Signore?
Premetto che a me sembra, dopo tanti anni che un pochino frequento la Bibbia, che sia veramente un peccato per noi: utilizziamo troppo poco la Parola di Dio perché la Parola di Dio è di una attualità imbarazzante. Mi sembra di poter dire che la Parola di Dio sia assolutamente anticipatoria di un futuro che ancora non conosciamo. Tutta la Bibbia: sono 73 volumi, 27 del Nuovo Testamento, 46 del Primo Testamento. Penso che i nostri figli, ma anche noi pensiamo che la Bibbia sia qualcosa di antico, una parola antica. E’ vero, è una parola antica, ma una parola che ha una struttura che Gesù stesso ci indica. Gesù dice chi legge la Scrittura è come qualcuno che tira fuori…, così come lo scriba che tira fuori da essa cose antiche e cose nuove. Per capire ciò che è nuovo l’antico ci fa da chiave.
Se abbiamo uno sguardo amoroso, solidale con la realtà attuale, uno sguardo intelligente, responsabile, se conosciamo la realtà in cui viviamo, se leggiamo i giornali, se ci interessa la vita delle nostre città, se ci sentiamo responsabili della storia, dello spaccato della storia che è consegnato al frammento che è la nostra vita, noi potremo scoprire tante cose nella Scrittura. Mi colpiva che alcuni miei studenti un po’ di anni fa – sette, otto anni fa- dicevano continuamente: ”Bisogna difendere la fede”. No, il verbo difendere è proprio sbagliato circa la fede, perché la Parola ci insegna: la fede non si difende. Si difende qualcosa che si ha… per esempio a casa ho la cassaforte e la difendo chiusa a chiave. La fede è una parola di incontro, non si difende, si annuncia, intendendo la parola come deposito un depositum fidei, deposito della fede. La parola del Vangelo è una parola che si spende, non si difende, perché la parola si incarna ogni giorno, ogni anno, ogni momento, in ogni situazione,
quando vengono i venti, la pioggia… di oggi non quelli di ieri. Per davvero essa diventa per noi una roccia se noi non la mettiamo sotto spirito, se noi non la consideriamo una cosa antica e certe cose magari poi si dice sono ormai scadute, non sono più valide…
Dobbiamo imparare a leggere la Scrittura per potercene davvero
“avvantaggiare”.
Per concludere qui su questa parola, – perché naturalmente noi possiamo soltanto aprire delle piste sul Vangelo di Matteo, poi sarà il nostro lavoro di quest’anno, sarà la nostra vita di ogni giorno, sarà il nostro confronto con questa parola, sarà questo lavoro sapienziale che ogni cristiano deve fare con la Parola di Dio che ci porterà ad avere qualche risposta, qualche indicazione per come davvero realizzare la Parola che il Signore ci dice, – sicuramente Gesù quando parla di fondare la casa sulla roccia e di non fondarla sulla sabbia lo dobbiamo leggere tenendo conto di tutto quello che sarà lo sviluppo
del Vangelo di Matteo.
Quindi, una prima accezione mi sembra proprio questa: Gesù dice “non siate ipocriti”. Fondare la casa sulla sabbia significa essere ipocriti. C’è un intero capitolo nel Vangelo di Matteo, il capitolo 23, che è molto spinoso e molto urtante, è un elenco di sette guai, gli oracoli dei guai. Li scrive per i farisei, ma se noi ci mettiamo veramente dentro, scopriamo che tanti atteggiamenti degli scribi e farisei, purtroppo, ci appartengono. Allora chi è l’ipocrita? E perché Gesù utilizza questo aggettivo? Nel Vangelo di Matteo è l’aggettivo
che Gesù più utilizza statisticamente. E’ proprio l’ipocrites, l’ipocrita. Che cos’è l’ipocrita? E’ l’attore, l’ipocrites: di per sé significa la maschera. Gli attori del mondo antico la portavano addirittura con un bastone e se la portavano dietro perché dovevano integrare la maschera del personaggio. Allora Gesù stigmatizza specialmente questo difetto rispetto proprio alla Parola di Dio, il difetto che avevano gli scribi e farisei, che usavano la stessa Parola di Dio, che usavano la legge di Mosè come una maschera. Cioè quella parola non li toccava, loro erano gli interpreti di quella maschera; tanto è
vero che leggevano delle cose che non sempre rispondevano a quello che la Parola di Dio diceva e il loro cuore era lontano da Dio, lontano da quella Parola.
L’ipocrisia è qualcosa che ci rende attori, ci rende doppi, perché ipocrisia significa anche doppiezza. Nel capitolo 23 Gesù dice un’esemplificazione: voi guardate a tutte le devozioni, (un precetto per esempio era quello che bisognava pagare la decima su tutti i prodotti), voi guardate alle cose più minuziose, quindi al pagamento della decima del cumino, della menta – quelle piante piccoline, che non erano il grano, i cereali o gli animali, ecc.- per dire che c’è una religiosità che va sulle cose esteriori, c’è una religiosità che chiede un culto esteriore, una religiosità che è veramente una maschera per dire che noi siamo cristiani sì, perché andiamo a Messa la domenica, perché ci riuniamo tra noi, perché facciamo anche un po’ di carità verso i poveri, ecc. Non basta! Gesù dice: non potete trascurare la giustizia, la misericordia e la fedeltà a fronte di tutte le osservanze, a fronte di tutte quelle che possono essere le pratiche religiose. Gesù non dice che sono da condannare: condanna l’ipocrisia. Voi riducete la fede a un culto esteriore, come dire: la vostra fede non tocca la vostra vita, perché la giustizia è un’esigenza della fede. E la giustizia nella Bibbia non significa fare delle parti uguali. Portare giustizia, nella lingua ebraica ma anche nella lingua greca, significa fedeltà alla comunità. Questa è la giustizia. La giustizia è che noi facciamo parte di un unico corpo, quindi è la responsabilità dell’altro. ll cristiano non è responsabile solo di se stesso, tutti sono responsabili di se stessi, ma il cristiano ha il compito della giustizia, cioè di essere responsabile della vita dell’altro. Nel libro di Ezechiele si dice proprio espressamente questo: “l’empio se pecca morirà per il suo peccato, ma della sua vita” dice Dio a Ezechiele “io renderò conto a te”.
Quindi la giustizia è una lotta, la giustizia è un impegno e riguarda quel corpo mistico che è tutta la Chiesa, tutta la comunità. Poi, dicevo, vengono la fedeltà e la misericordia.
Dunque per concludere sempre sulla roccia (devo andare avanti perché non voglio perdere troppo tempo), il vangelo di Matteo è l’unico in cui Gesù per due volte cita un versetto del profeta Osea (già citato nel primo libro di Samuele al capitolo 15), che è questo:
io voglio l’amore e la misericordia e non il sacrificio. L’originale
greco significa: “e non i riti esteriori” perché non significa il sacrificio
in senso morale ma significa proprio: si eviti l’esteriorità, io non
voglio l’esteriorità ma voglio l’amore, voglio la misericordia, voglio
la cura vicendevole, voglio che voi perdoniate. Nel primo discorso
parla anche del perdono…
Siamo dinanzi ad una crescente fragilità fisica ed etica delle nostre
comunità, di fronte ad un mondo che riduce ad ipocrites, ad
immagine, a fotografia; oggi per noi la maschera è la fotografia, il
selfismo, diverso dal narcisismo, perché narcisismo è l’amore di se
stessi, il selfismo è l’amore della propria immagine.
1.“Chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica sarà simile a
un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. Cadde la
pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella
casa, ma essa non crollò, perché era fondata sulla roccia” (7,24-25).
Gesù cattura i lettori e i credenti a seguire e attuare la via di
cambiamento/conversione che Egli annuncia: è venuto il tempo del
compimento in cui si rivela la verità delle cose che mostra la verità di tutti
noi. Su cosa è fondata la nostra fede? Su una patina superficiale ed
ipocrita? Ognuno deve decidere se vuole gettare la maschera dell’attore
per cercare l’autenticità della fede. “Guai a voi, Scribi e Farisei ipocriti…”
(c. 23), perché la vostra casa è fondata sulla sabbia e non resisterà. Un
monito prezioso per la Chiesa che vede la crescente fragilità fisica ed etica
delle sue comunità rispetto ad una cultura dove la realtà si riduce ad
immagine e artificio (= la decisione etica).

SALE
La seconda parola è il sale . Sempre nel primo discorso Gesù dice
“Voi siete il sale della terra ma se il sale perde il sapore con che cosa
lo si renderà salato… a null’altro serve che ad essere gettato via e
calpestato dalla gente”. E’ una grande provocazione per tutti noi
cristiani, per la Chiesa.

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Sale è una parola che dà origine ad altre, è una parola che sta dentro
ad altre parole: ha la stessa radice di sapienza, di sapore, di sapere. Il
sale appunto non è un cibo, ma è quello che dà sapore al cibo. Chi è
il cristiano? Se Gesù dice voi siete il sale della terra, il cristiano è nel
mondo come sale, cioè per dare senso. Essere sale significa coltivare
la sapienza, sapere, avere un sapore, cioè noi cristiani oggi non ci
possiamo permettere di essere ignoranti circa l’umano, circa quello
per esempio che viene somministrato ai nostri figli, circa la Parola di
Dio. Dobbiamo conoscere la Parola di Dio, dobbiamo passare il
tempo a meditare sulla verità, sulla fedeltà, sul senso della vita, su
ciò che può veramente dare una speranza all’umanità.
Il cristianesimo non può più vivere di rendita. Noi cristiani oggi
siamo in una società dove i bambini arrivano all’età del catechismo,
7-8 anni, che sono completamente digiuni di parole della fede, non
conoscono nessuna Parola, le famiglie non passano più la fede (a
Roma dove abito succede così). Per esempio, quando ero giovane –
30-40 anni fa – la fede ancora passava attraverso le famiglie, oggi
non più. Oggi bisogna conoscere le parole della fede per poterle
trasmettere: lo dobbiamo fare. Solo in quelle famiglie che vivono
con i nonni o i bisnonni si parla. Armando Matteo già qualche anno
fa ha scritto un libro molto interessante che si intitolava La fuga delle
quarantenni. Lui diceva che le chiese vuote dipendono dal fatto che
le quarantenni, cioè le mamme dei ragazzi di 13, 15, 17 anni, non
vanno più a Messa e non insegnano più ai loro figli (oggi possiamo
dire anche la fuga delle cinquantenni, perché le quarantenni sono
diventate cinquantenni..). Non c’è più nessuno che passa, che
trasmette, e don Armando, secondo me molto intuitivo – è uno forse
dei teologi più acuti che abbiamo oggi in Italia- poi ha scritto un
libro in cui appunto giustifica anche la mancanza di sacerdoti, cioè
delle vocazioni, con il fatto che nelle famiglie non c’è più questa
educazione. Questo però che cosa significa per noi? Che dobbiamo
prendere una decisione, che dobbiamo decidere: la Parola di Dio per
noi, il Vangelo, gli insegnamenti di Gesù sono questione di vita o di
morte o no? Per noi intesi come società, come Chiesa, per noi come
cittadini, sono o non sono qualcosa di prezioso? Allora dobbiamo
conoscere il Vangelo, dobbiamo meditarlo, dobbiamo
metabolizzarlo e rispondere al bisogno dell’oggi anche culturale.

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C’è una scelta veramente politica da fare: politica significa
partecipazione alla vita della società. Papa Francesco ci ha ricordato
qualcosa che viene da Tommaso (molte cose si ascrivono a papa
Francesco, come se lui avesse inventato…i poveri ad esempio… ma i
poveri c’erano prima di papa Francesco!); ha detto Francesco: la
prima forma di carità è la Politica. Ciò significa la responsabilità della
cultura che non è difendere una cultura del passato, ma dialogare
con le scienze contemporanee. Dobbiamo dialogare con la biologia,
dobbiamo dialogare con la biotecnologia, perché la biotecnologia
sta trasformando la nostra vita, dobbiamo dialogare con la
matematica. Io vorrei che i seminaristi studiassero tre scienze, oltre a
quelle umanistiche, studiassero la biologia, la matematica e la fisica:
sono tre scienze importantissime che stanno portando avanti l’oggi. I
computer sono matematica, l’algoritmo è matematica. I seminaristi
devono conoscere queste scienze, altrimenti non facciamo più
teologia; fare teologia significa dialogare con le scienze
contemporanee. Una volta era così, poi purtroppo da Galilei in poi
la Chiesa si è fermata nel suo rapporto con la scienza ed è stata una
grandissima perdita. Prima erano soprattutto i chierici i grandi
inventori (Copernico era un frate agostiniano se ricordo bene)…
Quindi essere sale: voi siete il sale della terra, lo siete perché date
sapienza, perché fate discernimento e quindi potete rispondere alle
persone, ai non credenti, ecc., anche ai credenti smarriti che hanno
bisogno di una traccia, che hanno bisogno di un pensiero che aiuti
proprio ad agire.
L’altro aspetto dell’essere sale della terra nel capitolo 25 sono le
opere di carità, corporali e spirituali. Corporali: quelle su cui saremo
giudicati, venite benedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il regno
preparato per voi fin dalla creazione del mondo perché ho avuto
fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da
bere… Questo significa essere il sale della terra: costruire un mondo
che accoglie il Signore, saperlo costruire. E si fa proprio su questo:
ero affamato e mi avete dato da mangiare, ero assetato e mi avete
dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, ero nudo e mi avete
vestito, malato e mi avete visitato, in carcere e siete venuti a
trovarmi.

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Guardate che qui c’è tutto il terzo settore… In un certo senso la
Chiesa italiana opera nel terzo settore. Due anni fa sono stata a
Cagliari per la settimana sociale e ho avuto una grande gioia e
voglio condividerla. Il terzo settore, il welfare in inglese, chi lo ha
introdotto in Europa? La Chiesa cattolica l’ha introdotto. Ci sono
stati prima i monasteri, d’accordo, ma ci sono state poi le fondatrici
delle case religiose, delle congregazioni (anche il maschile ha fatto
questo, ma c’era il clero nel mondo maschile): quante congregazioni
religiose di vita attiva femminili sono nate per istruire ragazzi e
ragazze che non andavano a scuola perché non c’erano le scuole… Il
welfare: cioè la scuola, la sanità, l’aiuto a chi è nudo, a chi è
straniero, … , l’accoglienza.
La nostra Chiesa ha una tradizione straordinaria su questa parola,
sulla parola sale, cioè la parola che ci ha dato Gesù: Voi siete il sale
della terra, cioè trasformate tutto ciò che è abbandono dell’umanità
in giardino per l’umanità. E la Chiesa italiana gestisce in Italia ben tre
milioni di persone nel terzo settore, noi come Chiesa (3 milioni su
60 milioni mi sembra che siano abbastanza…). C’è un impegno
grandissimo della nostra Chiesa che non sempre tra l’altro viene
riconosciuto.
Ecco questo significa essere il sale della terra. Fare cultura, quindi la
politica intesa come cultura e come opere, come impegno concreto
nel mondo sociale, economico, eccetera.
2“Voi siete il sale della terra, ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo
si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato
dalla gente” (5,13).
È il momento di rendere ragione della nostra fede, di essere “sapore”
“sapienza”, saggezza e profezia nella società contemporanea. Il sale non è
un cibo, ma dà sapore ai cibi; la fede dà valore e senso all’esperienza
umana. Il sale veniva usato per celebrare il rito di Alleanza tra Dio e
Israele; il compito della Chiesa è quello di essere “giuntura” tra Dio e
l’umanità. Occorre mettersi in gioco, perché saremo giudicati su ciò che
abbiamo creduto ed operato “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in
eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho
avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato
da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato

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e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi” (25,34-36).
Ogni cristiano è chiamato alla responsabilità dell’altro (= la decisione
politica).

PROSSIMO
La terza parola è la parola prossimo. La parola prossimo per me è
quella della decisione evangelica perché Gesù dice: “Avete udito che
fu detto: amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”. Nel primo
testamento c’era una divisione ben precisa tra il popolo eletto, il
popolo di Dio, il popolo di Israele e gli altri popoli. Gli altri popoli
in tanti testi del primo testamento erano i nemici. Allora ecco perché
Gesù assume un testo dalla Torah e dice: Vi ha detto Mosè di amare
il prossimo, intendendo per prossimo il tuo amico, quello che è
vicino a te, quello che è circonciso come te, quello che appartiene
alla tua religione, che professa la tua religione, che appartiene al tuo
popolo, mentre odierai il tuo nemico, i nemici dovevano essere
odiati (purtroppo la Bibbia porta tanti esempi anche di questa
esigenza, di odiare i nemici, perché i nemici erano idolatri, perché
erano quelli che volevano distruggere Israele, eccetera).
“Ma io vi dico…”. Gesù nel capitolo 5 nei versetti 43 e 44 dice
quello che è il cuore proprio del cristianesimo. Se c’è una differenza
cristiana dalla religione da cui il cristianesimo viene che è la religione
giudaica e se c’è una differenza cristiana proprio splendida che tutti
ci riconoscono, che ci hanno riconosciuto nel passato, che ci
riconoscono oggi anche i non credenti, è proprio questa: lo stupore
del non credente di fronte a questa parola: Io vi dico amate i vostri
nemici.
L’amore dei nemici è l’humus del cristianesimo ed è quasi impossibile
amare i nemici. Anche per noi è tanto difficile amare i nemici…
Certe volte addirittura noi anche nella Chiesa tendiamo a
ghettizzarci un po’ (c’è un movimento, separato, c’è un altro
movimento… sì è molto bello che ci siano i movimenti in una
diocesi, è molto bello, ma talvolta però c’è estraneità tra un
movimento e l’altro). Guardate, l’inimicizia nasce sull’estraneità,
l’indifferenza è la base dell’inimicizia, da lì viene. Invece Gesù dice:

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”Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano”.
Allora l’amore per il nemico è una decisione che noi dobbiamo
prendere, è un lavoro che dobbiamo fare perché questa è la Parola
del Signore, perché questa è la differenza cristiana. Se chi sta intorno
a noi vedrà che siamo diversi sarà per questo, perché tutti amano i
loro amici, tutti amano i loro figli, i loro parenti (più o meno, a
parte qualcuno che non ama proprio la suocera… per scherzare).
Chi non ama il proprio popolo, la gente che è nata qui? Ma amare il
nemico vuol dire amare l’altro, il diverso, lo sconosciuto, è amare
anche il rischio perché tu ami il nemico, ami qualcuno che potrebbe
o che già ti ha fatto anche del male. Ma questo è il mistero cristiano,
questo è il sapore dolce che c’è dentro la noce di cocco del Vangelo
di Matteo. Sì è una noce di cocco perché è un Vangelo anche molto
duro, molto forte: il Signore non fa sconti.
L’amore per il nemico è un ponte di fraternità, di diritto, di giustizia,
di rispetto, di amicizia, di collaborazione, di pane condiviso, di pane
e di dolore condiviso, di pane e di bisogno condiviso e dell’opera
della pace. Questa io la chiamo: la decisione evangelica.
Abbiamo visto la decisione etica (la roccia), la decisione politica (il
sale), la decisione evangelica è quella centrale e la dobbiamo
chiamare evangelica perché veramente per amare il nemico
dobbiamo pregare molto, dobbiamo essere accanto al Signore,
perché amare il nemico davvero è qualcosa quasi contro natura in
un certo senso, ma è un amore attivo quello che dobbiamo mettere
in conto, perché davvero la vocazione della Chiesa è quella di essere
una giuntura tra i lontani e i vicini, tra i diversi e gli uguali… La
lettera agli Efesini al capitolo 4 parla della Chiesa, dei cristiani come
giuntura.
3. “Avete udito che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo
nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi
perseguitano” (5,43-44): c’è una “differenza cristiana” ed è questa! Tutti,
infatti, amano i propri amici e vorrebbero che il mondo fosse abitato solo
da essi. L’amore per il nemico è un ponte di fraternità, di diritto e di
giustizia, di rispetto, amicizia, collaborazione, di pane condiviso,
dell’opera della pace perché la terra sia madre di tutti (= la decisione
evangelica).

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CURA
La quarta parola è la parola cura. E’ un debito che abbiamo verso
Matteo perché Matteo è l’unico Vangelo che ci porta due elementi
che sono assolutamente da ricordare qui. Il primo è che all’inizio del
Vangelo c’è una genealogia di Gesù, una genealogia che prende
molto tempo (14 più 14 più 14 le generazioni). In questa genealogia
ci sono quattro donne più una (Maria), ma quattro donne ci sono:
una cosa stranissima. Chi conosce gli scritti biografici sia nel mondo
greco sia nel mondo latino, le vite degli uomini illustri, sa che in
questi scritti sempre c’era una genealogia, perché la genealogia dà
lustro appunto ad una persona che si voglia esaltare, elogiare. Ma in
queste genealogie le donne sono assenti, tanto più nel mondo
ebraico, in una cultura come quella di Matteo dove sono i padri che
contano: Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe… I figli ci sono, c’è
insomma questo maschile: c’è il patriarcato. Il fatto che Matteo abbia
inserito nella genealogia queste quattro donne – e sono quattro
donne straniere – nella genealogia di Gesù, Gesù che per Matteo è
chiaramente il Messia, è qualcosa di straordinario!
Gesù di chi è figlio? Di Davide prima di tutto e poi di Abramo!
Capite? Qui c’è un chiaroscuro che deve colpire e che deve essere per
noi oggi una voce profetica, una voce che dice l’importanza della
donna nella Chiesa! Gesù è nato da Maria appunto, da una
vergine… che significa dunque questo? Che la Parola di Dio ha
bisogno di uomini e di donne! La quarta parola è la parola cura, ma
allora chi si è preso cura di Gesù, del Signore? Perché Gesù ha avuto
bisogno per nascere, nei Vangeli dell’infanzia appunto, di qualcuno
che si prendesse cura di lui. Le prime a prendersi cura sono state
queste donne nei suoi progenitori, donne problematiche per tanti
motivi, donne straniere, c’è anche una prostituta addirittura, Raab.
Rut è la moabita e appartiene ad una popolazione riprovevole agli
occhi degli ebrei… c’è Tamar (questa si finge prostituta per avere una
discendenza) che pure è considerata una cananea, c’è Betzabea,
moglie di un Ittita. Queste donne hanno lasciato il loro popolo per
andare a dare una discendenza al popolo di Dio. Rut è la madre di
Obed, Rut quindi è la bisnonna di Davide. Sono cose molto
importanti. Questo per quanto riguarda le donne.

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C’è un altro elemento, unico in Matteo: tutta la “fiction” (è come se
lui seguisse con la telecamera), a differenza di Luca che segue Maria,
all’inizio prima che Gesù nascesse, segue Giuseppe. Matteo è l’unico
che ci parla di Giuseppe. Giuseppe è un gigante nel Vangelo di
Matteo perché è proprio il docente della cura, del prendersi cura.
Giuseppe viene a sapere che la moglie è incinta, lui non sa ancora
perché lo sia, decide di rimandarla in segreto… Sono quattro le scene
che riguardano Giuseppe.
Nel capitolo primo dal versetto 18 e fino a tutto il capitolo secondo,
quindi la nascita di Gesù, Giuseppe fa un sogno e l’angelo di Dio
parla a Giuseppe nel sogno. Per ben quattro volte l’angelo di Dio
parlerà a Giuseppe, invece a Maria solo una volta, perché insomma
le donne ci arrivano prima… (sto scherzando).
Che cosa dice l’angelo di Dio a Giuseppe? La prima cosa: Non
temere di prendere con te Maria; poi dice: Prendi con te il bambino
e sua madre. Questa è una cosa molto importante per l’oggi: sapete
bene quanto oggi si parli e si certifichi la crisi della paternità. C’è una
crisi fortissima della paternità (il successo di Massimo Recalcati è
dovuto proprio a questo fatto). Recalcati, uno psicologo molto
credente, – ha scritto diversi libri, adesso anche sui Vangeli, su temi
evangelici – ha denunciato, ha parlato del complesso di Telemaco.
Lui ha detto: I figli oggi non hanno più il complesso di Edipo, quello
che avevamo noi, gli ultracinquantenni e cioè che volevamo uccidere
il padre (l’autorità del padre era troppo pesante, bisognava
toglierla). Lui dice: i figli oggi hanno il complesso di Telemaco.
Telemaco è il figlio di Ulisse che non ha visto mai il padre perché è
nato quando il padre ormai era andato alla guerra di Ilio, quindi lui
ha vent’anni (per dieci anni c’è stata la guerra, dieci anni Ulisse
impiega per ritornare). L’inizio dell’Odissea è questo: Telemaco
allestisce una nave e va a cercare il padre. Questo è il complesso di
Telemaco. Oggi noi viviamo questo.
C’è una crisi profonda della paternità. Lo abbiamo vissuto anche noi
a livello di Chiesa, viviamo ancora il grande dolore, il grande strazio
della pedofilia: anche questo è un rapporto padre-figlio, è una
paternità mancata. Ci dobbiamo pensare a questo: non è solo
malattia, è violenza sì, ma è il segno che tra le generazioni c’è stato

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un grande sfilacciamento (studiato anche questo, non è che lo stiamo
dicendo noi).
Allora la figura di Giuseppe utilizzatela perché lui è veramente un
padre adottivo, cioè il vero padre è il padre adottivo, dice il vangelo
di Matteo. Non è il padre che si realizza nel figlio perché il figlio è il
suo seme. Nella paternità giudaica i figli erano per i padri: i figli
erano quelli che costituivano la proprietà dei padri. Invece nella
paternità adottiva i padri sono per i figli. Giuseppe non potrà mai
dire che Gesù è suo figlio, ma dà il nome a Gesù e dare il nome
significa: io sono responsabile di te, io ti do il mio nome, io mi
prendo cura di te e naturalmente insieme a te anche di tua madre,
perché non si può staccare un figlio da una madre. E’ fortissimo,
andate a leggervelo, vi chiedo di farlo.
Per lui la paternità che cos’è? È prevenire. A un certo punto quando
c’è Erode che lo cerca e che uccide poi i neonati (la strage degli
innocenti) è Giuseppe che salva Gesù. Giuseppe è stato il primo
salvatore di Gesù perché l’ha portato in Egitto. Si è detto: Ma qui c’è
un pericolo e quindi lo porto in Egitto. Quando viene a sapere che
Erode è morto lo riporta. Questa è la paternità. Dobbiamo prenderci
cura dei figli. I padri debbono adottare i figli, devono veramente
esserci nella famiglia, devono esserci per la famiglia.
Matteo ci insegna la cura, la cura prima di tutto attraverso le donne
e attraverso questo grande padre che è Giuseppe e naturalmente poi
attraverso quella che è la Chiesa, la sua cura verso il mondo.
4. “Un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Àlzati,
prendi con te il bambino e sua madre” (2,13): è quanto chiede l’angelo di
Dio a Giuseppe, promesso sposo di Maria. Egli avrebbe voluto rimandare
la madre di un figlio non suo, ma l’angelo lo “converte” convincendolo a
prendersi cura di Gesù e di sua madre. L’esempio del padre adottivo di
Gesù è di grande provocazione per gli uomini e le donne di oggi, perché si
facciano padri e madri di tutti i figli di Dio nel mondo; per le famiglie
cristiane perché si prendano cura di tutti coloro che sono figli di nessuno
al mondo (= la decisione sociale).

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FELICITÀ
L’ultima parola è la parola felicità con cui mi sono permessa di
tradurre la parola macarios, in greco, quello che normalmente viene
tradotto con “beato”. Beati i poveri, abbiamo letto, io ho tradotto:
felici i poveri perché di essi è il regno dei cieli, felici i miti perché
avranno in eredità la terra, felici i misericordiosi perché troveranno
misericordia, felici quelli che hanno fame e sete della giustizia perché
saranno saziati, felici gli operatori di pace perché saranno chiamati
figli di Dio.
Questa è la più bella pagina per me del mondo che sia mai stata
scritta. Nelle beatitudini c’è il sogno dell’umanità: che i poveri
possono essere felici, che gli afflitti possono essere felici, che quelli
che muoiono per la giustizia o per la pace (Gandhi e tanti altri, i
nostri giudici, Falcone e tanti altri, anche parenti), anche noi stessi
che abbiamo sofferto che possiamo trovare dentro questa afflizione
il bacio di Dio, il bacio della felicità.
Le beatitudini sono un’assurdità, le beatitudini sono un paradosso,
sono un ossimoro, dolce amaro. Come si fa a dire che i poveri sono
beati? Come si fa a dire che di essi è il regno, che i poveri hanno un
regno?
Concludo. Nel mondo antico l’aggettivo beato si diceva di Dio. Dio
era beato per due motivi: beato significa sazio, chi vive
nell’abbondanza, che non manca di nulla. Macarios, in greco, era un
epiteto fisso della divinità, un aggettivo che qualificava la divinità,
perché la divinità è nell’abbondanza, non manca di nulla. Il dio è
sazio perché non deve lavorare per mangiare, non è povero, ha
tutto: è sazio di cibo, quindi il suo presente non è a rischio ed è sazio
di tempo, è immortale. Mentre la condizione più grande della nostra
povertà, di tutti, poveri e ricchi, è che dobbiamo morire, è la morte
il più grande segno della povertà.
C’è una provocazione che Gesù lancia (questo è l’inizio del primo
suo discorso nel vangelo di Matteo): sono le beatitudini. Nel
vangelo di Luca sono quattro beatitudini e 4 guai: è un discorso di
giudizio. Qui invece no, è un discorso proprio di sapienza divina
perché sono nove più una beatitudine. Le beatitudini sostituiscono la
Legge, il Decalogo. Pensate, sono al posto del Decalogo. Le

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beatitudini sono il linguaggio della fede cristiana: la fede cristiana
non è fatta di un linguaggio di dovere (non dice devi, non devi, no).
La fede cristiana dice: se vuoi essere felice… E indica una felicità
veramente stranissima da comprendere ma certamente i poveri la
comprenderanno, gli afflitti la comprenderanno, i miti, quelli che
non sono violenti (Abele è il primo mite della storia biblica), che
vengono scacciati dalla terra essi erediteranno la terra.
Il sogno del mondo è che veramente gli oppressi possano essere
riscattati e il sogno di Dio, la felicità è la grande decisione, che io
definisco umana, per dire che nell’umanità si realizza il sogno di Dio.
Questa felicità io auguro veramente non solo per questo anno ma
per tutti gli anni a venire a tutti voi e vi ringrazio!
5. “Felici i poveri in spirito perché di essi è il Regno dei cieli (…) Felici i miti
perché avranno in eredità la terra (…) Felici i misericordiosi, perché
troveranno misericordia. Felici quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati. Felici gli operatori di pace, perché saranno
chiamati figli di Dio” (5,3.5-7.9).
La più bella pagina di tutti i libri mai scritti è un dono del Vangelo di
Matteo: le Beatitudini. Un canto alla più originale delle felicità, a quella
beatitudine per cui lo scarto dell’umano può vivere nelle condizioni di
Dio. Felice, infatti, è Dio, sazio di tempo e di vita, proprio ciò di cui
mancano i poveri, gli afflitti, i miti, i perseguitati. Gesù indica la via perché
le valli di lacrime possano diventare montagne di gioia, consegnando alla
fede e all’impegno della Chiesa il compito della Felicità e la gioia di
realizzare il Sogno di Dio per le creature (= la decisione umana).