Solennità dell’Epifania, il testo dell’omelia di mons. Devasini

Pubblichiamo il testo integrale dell’omelia pronunciata da mons. Giampio Devasini, vescovo di Chiavari, nella Solennità dell’Epifania

Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme. I primi ad accorgersi della nascita di Gesù, il Figlio di Dio, furono dunque degli stranieri, dei pagani e per di più dediti all’arte della magia e quindi ingannatori. Eh sì, l’evangelista Lc parla di maghi, non di magi. Poiché però l’arte della magia era proibita dal libro del Levitico (cap. 19), la comunità cristiana preferì usare il più innocuo termine di magi. Non solo. Li elevò al rango di re, disse che erano tre a motivo dei tre doni, e impose loro i nomi (almeno in occidente) di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre. Le loro reliquie, rinvenute a Costantinopoli, l’odierna Istanbul, sono custodite a Colonia e a Milano. A muovere i maghi furono sia i ragionamenti sia il desiderio di trovare un senso per cui valga la pena vivere, il desiderio di trovare un nome con cui dare volto ad una non meglio individuata mancanza. A Cristo si arriva solo facendo funzionare bene la testa e il cuore. Il cammino di questi maghi fu pieno di tanti errori: giunsero nella città sbagliata, persero la stella, parlarono del Bambino con l’uccisore di bambini, cercavano un re e trovarono un Dio. Il Vangelo non censura queste difficoltà per ricordarci che la scoperta del dono della fede è sempre frastagliata di difficoltà. Il loro cammino però fu pieno anche dell’infinita pazienza di ricominciare e così consolano noi e il nostro andare accidentato, assicurandoci che il dramma non sono gli errori ma arrendersi agli errori, che la nostra vita va di ricominciamento in ricominciamento.

 

e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo». All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Perché il re Erode e la casta sacerdotale con lui connivente furono presi dal terrore? Perché temettero fosse arrivato colui che avrebbe sottratto loro il potere civile-religioso assicurato da Roma e dal Tempio.

Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: “E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”». Consultati da Erode e dai maghi, i sacerdoti e gli scribi non hanno dunque alcuna esitazione nel dare la risposta giusta. Sanno dov’è nato il Messia; sono in grado di indicarlo agli altri; ma essi non si muovono, restano comodamente a Gerusalemme. Si comportano come i cartelli stradali: indicano la via da seguire, ma restano immobili ai lati della strada. La verità è che quel che manca a Gerusalemme non è certo la scienza, ma l’attesa e la speranza. Anche noi sappiamo bene cosa comporta seguire Gesù e, all’occorrenza, lo sappiamo spiegare agli altri. Ma attendiamo ancora Gesù? Gesù è ancora l’oggetto della nostra speranza? Usciamo dalle nostre comode case per andare a trovarlo negli stranieri (come i maghi), nei poveri (come i pastori)? Siamo convinti di “valori”, come oggi si dice, ai quali mai rinunceremmo; facilmente produciamo proclami giustizialisti e libertari; facilmente difendiamo a parole la causa del povero e dello straniero; ma molto meno facilmente accettiamo la prossimità del povero e dello straniero alla nostra vita. Quali siano i rapporti umani giusti è molto facile riconoscere a livello di principi; addirittura troppo facile è giudicare alla luce di quei principi i nostri simili; difficilissimo invece sembra essere fare di quei principi il criterio per giudicare noi stessi, per confessare la nostra colpa.

Dopo il colloquio con Erode i maghi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. La fede è il dono d’incontrare Cristo concretamente. E il primo sintomo di questo incontro è “una gioia grandissima”. Una gioia da custodire e da mostrare così da attirare altri a Cristo. Pasolini nella lirica Maria si chiede: «O gioia, gioia, gioia…C’è ancora gioia in quest’umida notte preparata per noi?». E Nietzsche: «I cristiani dovrebbero cantarmi canti migliori perché io impari a credere al loro redentore: più gioiosi dovrebbero sembrarmi i suoi discepoli» (Così parò Zarathustra); «Se Cristo è risorto, perché siete così tristi? Voi cristiani non avete un volto da persone redente»; «Ma voi, se la vostra fede vi rende beati, datevi da conoscere come beati! Per la vostra fede le vostre facce sono sempre state più dannose delle nostre ragioni! Se la lieta novella della vostra Bibbia vi stesse scritta in faccia, non avreste bisogno di imporre così rigidamente la fede nell’autorità di questo libro» (Umano, troppo umano).

Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono: Israele dovrà smetterla di considerarsi il popolo eletto, la sposa di Dio. Dio è di tutti. Il suo amore è per tutti. Il suo regno – e cioè la società alternativa ch’egli è venuto ad inaugurare nella persona di Gesù – è aperto a tutti.

Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese. L’incontro con Gesù quando è vero ci converte e cioè cambia il nostro modo di pensare e di agire. Cari fratelli e sorelle, torneremo a casa per la strada per cui siamo venuti?; saremo oggi quello che eravamo ieri e domani quello che siamo oggi? Che lo Spirito Santo ci aiuti ad essere gioiosi, a mostrarci gioiosi, a rendere gioiosi; che lo Spirito Santo ci aiuti ad uscire dal nostro egoismo e ad andare incontro al fratello, alla sorella che attende da noi il nostro oro (ciò che abbiamo), il nostro incenso (il profumo sprigionato dalla nostra presenza), la nostra mirra (ciò che sappiamo sacrificare di noi stessi, spendendo la vita per l’altro). Amen.